Siticibo / Un furgone freezer e volontari. La mensa edison ricicla i pasti

 

Dalla mensa Edison a quella Abb, passando per la consulenza del Banco Alimentare.
Anche numerose mense
private ogni giorno riescono a salvare migliaia di pasti dalla spazzatura. Grazie anche al lavoro volontario dei dipendenti.
Una buona pratica
che conviene a tutti, perché buttare il cibo ha un costo, non solo in termini sociali ma pure economici. Mentre le aziende leader del settore
preparano uno stock di piatti che vengono direttamente donati agli enti caritatevoli.

Alla mensa della Edison di Foro Buonaparte dipendenti e azienda sei anni fa hanno comprato un furgoncino con incorporato l'abbattitore di temperatura. Solo così il cibo, portato a - 2 gradi, può essere riutilizzato. Ora, ogni giorno a fine pasto, verso le 15, dieci persone a rotazione possono avvalersi di 45 minuti di permesso retribuito per confezionare gli avanzi e caricarli sul mezzo del Banco Alimentare, che poi distribuisce il tutto alle strutture caritatevoli.
Dopo la richiesta dei giorni scorsi del Comune a Milano Ristorazione di fare uno sforzo in più per "salvare" il cibo, abbiamo provato a vedere come si muove in questo senso il settore privato. Che non si dimostra insensibile al tema.
«Non buttare nulla diventa quasi una fissazione collettiva racconta Francesca Magliulo, responsabile del settore responsabilità sociale di Edison - così cerchiamo di attrezzarci anche
in caso di catering».

Pure alla Abb spa di Sesto San Giovanni si fa la stessa cosa dal 2009 e soprattutto si consente ai dipendenti di svolgere il cosiddetto volontariato d'impresa nel settore. «Le opzioni sono due - spiega Francesca Federigi - o fare la colletta alimentare al supermercato il sabato oppure l'attività di magazzino al Banco Alimentare».
La verità è in qualche modo rivoluzionaria, ed è questa: non buttare via nulla «conviene a tutti», dice Manuela Kron, direttore delle relazioni pubbliche della Nestlè, la cui sede ha la mensa in viale Richard. Dal punto di vista etico, certo; ma anche dal punto di vista banalmente economico.
«Distruggere il cibo sprecato ha un costo non indifferente. E anche buttare tutto nella spazzatura è un peso in più per la collettività», ragiona. Per questo anche le aziende private che si occupano di nutrizione e ristorazione si stanno accorgendo che derubricare la questione degli sprechi e
della solidarietà al capitolo "anime belle" è ormai forma mentale fuori dal tempo.

Le otto sorelle che si prendono il grosso del settore delle mense private - Camst, Cir, Pellegrini, Compass, Dussmann, Elior, Gemeaz, Sodexo insieme  rappresentano circa il 60 per cento del mercato - hanno fondato un osservatorio che, tra le altre cose, si occupa proprio del come limitare lo spreco, e in che modo diffondere «una nuova cultura del servizio», sottolinea Carlo Scarsciotti di Oricon. E allora più attenzione sui menù, in modo da limitare al massimo gli avanzi andando incontro al gradimento degli utenti; percorsi di educazione alimentare rivolti a giovani e adulti; allo stesso tempo preparazione giornaliera di uno stock di pasti pronti che vengono donati direttamente alle strutture caritatevoli della città, e in un anno in media sono state 109.500 le razioni regalate (in  Lombardia).

Sul fronte recupero, invece, si è ancora un po' indietro: «Non pensiamo sia possibile redistribuire i cibi cucinati che non vengono consumati, già due ore dopo la cottura la qualità del prodotto cala drasticamente». La legge, comunque, da esattamente dieci anni a questa parte permette di farlo. Venne ribattezzata "legge del buon samaritano".
Anche le attività più piccole in qualche modo dimostrano un'attenzione particolare. Silvia Furiosi dà una mano alla Fondazione Fratelli San Francesco che gestisce la mensa per poveri di Saponaro, una delle più grosse della città, aperta tutto l'anno, estate compresa. I volontari fanno il giro anche per i panifici del quartiere, «e raramente riceviamo delle risposte negative. Però il rapporto con i privati che danno una mano spesso si lega alla conoscenza personale e al passaparola».
Se invece non conosci e chiedi di contribuire, «ti rispondono "facciamo già". Che era la scusa che utilizzavo anche io quando stavo dall'altra parte».

 

Fonte: La Repubblica ed. Milano (29/10/13) - di Matteo Pucciarelli